Maestro Eckhart: misticismo cristiano e spiritualità orientale

Maestro Eckhart era un monaco domenicano vissuto all'incirca tra il 1260 e il 1328.

Contemporaneo di Dante, era un mistico che cercava il “distacco” dal mondo, il silenzio, la solitudine. I temi dei suoi trattati e prediche erano il “nulla” e “il fondo dell'anima”.

Al di là del Padre, del Figlio, dell'Amore c'è la Deità, che possiamo pensare solo come il nulla di ogni pensiero umano su Dio.

In noi, se ci libereremo di ogni scoria mondana, scopriremmo il fondo immutato e immutabile dell'anima. Il fondo senza fondo. Come una coppa svuotata di tutto, anche dell'aria che contiene, verrebbe fatta salire al cielo in forza del suo vuoto, così il “distacco” dell'anima da ogni cosa, da ogni desiderio, da ogni sua proprietà la rende “pura” e costringe Dio a discendere in noi come suo luogo naturale.

Vivendo nel distacco troveremmo la nobiltà dell'uomo interiore e riceveremmo ogni consolazione in Dio.

Per l'arditezza delle sue affermazioni, maestro Eckhart è stato processato e condannato dalla chiesa per eresia. Morì prima che la condanna pontificia fosse pronunciata.

In questo superbo esponente della teologia mistica ritroviamo una eccellente sintesi tra la spiritualità cristiana e la spiritualità orientale. Definito il “padre della speculazione tedesca”, Eckhart rielabora il pensiero di Plotino, Dionigi l'Areopagita e del neoplatonismo in genere. Nel suo pensiero si scoprono importanti analogie con il pensiero delle Upanishad, del Vedānta e del buddhismo.

Lo Yoga nella Tradizione

Lo yoga è una disciplina complementare al sentiero della conoscenza (jnana yoga). E’ una scienza spirituale che ha come fine l’unione con il Principio, la liberazione dell’anima e la sua reintegrazione nello Spirito.

Già il termine è indicativo dalla radice sanscrita yuj che significa soggiogare- unire: è disciplina del corpo e della mente, ma anche unione spirituale. Si tratta essenzialmente di sperimentare e realizzare l’unione totale:

  • in se stessi fra corpo, energia e mente;

  • con la fonte dell’energia comune a tutti gli esseri.

Possiamo definirlo anche come la reintegrazione dell’individuale nell’universale, del relativo nell’Assoluto, esprime perciò uno stato in cui sparisce ogni nozione di dualismo e differenziazione ritrovandosi un’ “unità”.

E’ una scienza perché si basa su una sperimentazione diretta che dà conoscenza, e quindi il controllo di tutte le nostre facoltà, potenziandole, equilibrandole ed armonizzandole.

Questo metodo è molto antico e sia nelle Upanishad che nella Bhagavad-gītā si insegna la tecnica yoga del controllo della mente. Pare che le pratiche yoga abbiano da sempre accompagnato l’uomo nel suo cammino sulla terra, nelle prime Upanishad le menzioni si sprecano, leggiamo nella Chāndogya-Upanishad, una delle principali e più antiche facente parte del Sāma-veda:

Colui il quale, ritraendo e concentrando in sé (nell’Ātman) tutti i sensi, rispetti…la vita di tutti gli esseri costui invero, che per tutta la sua vita così si conduce, costui entra nel mondo del Brahman dal quale non più ritorna, dal quale non più ritorna.” (VIII,5)

Nella Katha-Upanishad la parola yoga viene menzionata in maniera specifica:

Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga (adhyātma-yoga), avendo contemplato (in sé) il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l’antico, abbandona il piacere e il dolore.” (II,12)

Questo Ātman non è conseguibile mediante spiegazioni, mediante intelletto oppure studio, per quanto grande; esso può essere ottenuto da colui che egli stesso sceglie; è per costui che l’ Ātman riveste il suo corpo.

Non lo consegue con piena conoscenza colui il quale non abbia desistito dal compiere il male, che non sia sereno e raccolto, la cui mente non sia calma.”

(II,22, 23).

Nella Śvetāśvatara-Upanishad vengono menzionate alcune tecniche che diverranno proprie allo yoga:

Il saggio, avendo collocato il proprio corpo in un luogo piano, tenendo erette le sue tre parti (schiena, collo, testa), mediante la mente ritraendo i sensi dentro il cuore, potrà attraversare con la navicella del Brahman tutte le correnti che portano in sé il terrore. A questo punto, compresso il respiro nel corpo, e regolando i movimenti, si dovrebbe respirare attraverso le narici con soffio lieve; come un carro aggiogato con cavalli selvaggi, il saggio deve contenere la propria mente senza distrarsi”.

Mente e corpo nel pensiero di Osho Rajneesh

Il rapporto mente- corpo è uno dei concetti essenziali per chi intraprende lo yoga e si accosta allo studio dello Yoga Sūtra di Patañjali. Comprendere questa relazione è fondamentale ai fini della conoscenza di sé.
Uno dei maestri del nostro tempo, Osho Rajneesh, ne fa una disamina lucida e appassionata.


Ecco alcuni stralci dei suoi discorsi: “la mente può essere sia fonte di schiavitù sia fonte di libertà. La mente ti porta all’inferno, ma può anche condurti in paradiso. Dipende da come viene usata. Un giusto uso della mente porta alla meditazione, un uso sbagliato alla follia.
La mente in se stessa non è né un nemico né un amico. Tu puoi fartene un nemico o puoi fartene un amico. Dipende da te, da quella parte di te che è nascosta dietro la mente. se puoi fare della mente il tuo strumento, il tuo schiavo, essa diventa il passaggio attraverso il quale raggiungi l’assoluto. Se invece tu diventi lo schiavo e permetti che essa sia padrone, allora ti porterà all’angoscia e all’oscurità assolute.

Tutte le tecniche, tutti i metodi, tutti i sentieri dello yoga, in realtà trattano un solo problema: come usare la mente.
Il matto nel manicomio e il Buddha sotto l’albero del bodhi hanno usato entrambi la mente. Buddha è arrivato al punto in cui la mente sparisce, perché usata in maniera giusta essa scompare. Il matto ha usato la mente, ma in modo sbagliato per cui diventa dissociata. Usata in modo sbagliato la mente si frantuma, diventa una moltitudine, per cui alla fine è presente solo una mente impazzita e tu sei del tutto assente. La mente del Buddha era sparita, ma Buddha era presente nella sua totalità.”

“I sūtra di Patañjali ti portano passo dopo passo a comprendere la mente: che cos’è, quali forme assume, quali modificazioni, come puoi usarla e come trascenderla. E ricorda, ora come ora non hai nient’altro, solo la mente. Devi usarla.”

Il realismo logico del Nyaya

Nyāya e Vaiśesika rappresentano una filosofia di tipo analitico e difendono il senso comune e la scienza. Ciò che distingue queste scuole è l’applicazione di un metodo scientifico a un argomento. Applicano i metodi della ricerca logica e della critica. Ciò che ci viene fornito dalle Scritture o dalla testimonianza dei sensi dev’essere sottoposto ad una ricerca critica. Il Nyāya è disposto ad accettare come verità qualsiasi cosa venga dimostrata dalla ragione. Ciò che distingue il Nyāyaè l’occuparsi in senso critico dei problemi metafisici.

Il Nyāya prende in considerazione il mondo interno e descrive a grandi linee il meccanismo della conoscenza e si batte contro lo scetticismo che dichiara che non vi è niente di certo. Il Vaiśesika prende in considerazione il mondo esterno e ha come obiettivo principale l’analisi dell’esperienza. Formula concetti generali che si applicano alle cose conosciute, sia mediante i sensi sia mediante l’inferenza o l’autorità. In genere questi due darśana vengono considerati come facenti parte di una sola disciplina e spesso il Vaiśesika viene usato come supplemento del Nyāya. Vengono così chiamati Samāna tantra o dottrine collegate perché entrambi credono nella pluralità delle anime, in un Dio personale, in un universo atomico e si servono di argomentazioni in comune. Tuttavia il Nyāya si concentra sulla parte logica, mentre il Vaiśesika su quella fisica.

Il Nyāya serve da introduzione ad ogni scuola filosofica poiché ogni scuola accetta i principi fondamentali della logica.

Ogni scienza è un nyāya ossia un indagare a fondo un argomento. Il Nyāya studia lo schema generale e il metodo delle indagini critiche. Esso si sviluppò dalle discussioni dialettiche per questo chiamato pure scienza del dibattito o della discussione.

La storia della letteratura Nyāya si estende lungo un arco di 20 secoli e il Nyāya Sutra di Gautama costituisce il primo manuale Nyāya. A questo seguono altri scritti che sono commenti al primo manuale.

Il termine Nyāya significa letteralmente “ciò per mezzo del quale la mente viene condotta ad una conclusione”, detto anche scienza del giusto ragionamento. La conoscenza implica 4 condizioni:1) il soggetto conoscitore, 2) l’oggetto su cui viene diretto il processo di conoscenza, 3) il mezzo di conoscenza (pramāna), 4) il risultato di questo processo. Ogni atto conoscitivo valido o non valido possiede 3 fattori: soggetto, oggetto e relazione di conoscenza tra i 2; però la natura di questa conoscenza se cioè sia valida o meno dipende dal terzo fattore ossia pramāna che è causa efficiente della conoscenza in circostanze normali.

Pramāna è “ciò tramite cui il soggetto conoscente conosce l’oggetto e produce cognizione. Ove è presente la cognizione si manifesta, ove è assente la cognizione non si manifesta. Pramāna è l’aspetto più importante poiché prima di indagare sulla natura degli oggetti dobbiamo conoscere la validità dei mezzi di conoscenza.

I 4 Pramāna tramite cui viene ottenuta la giusta conoscenza sono:

Pratyakşa o percezione diretta,

Anumāna o inferenza,

Upamāna o comparazione,

Śabda o testimonianza verbale.

 

I Darsana

Darśana vuol dire “punto di vista” e si riferisce in particolare alle sei scuole di pensiero sorte dalla critica e speculazione dei Veda. I più importanti darśana sono: Śāmkhya, Yoga, Vaiśesika, Nyāya, Pūrva-mīmāmsā e Vedanta. Essi rappresentano un particolare aspetto della Dottrina dei Veda per cui non possono contraddirsi, ma si completano e si chiariscono a vicenda. Ogni scuola infatti si è sviluppata in relazione alle altre che erano tenute sempre presenti. Le dottrine sono esposte sotto forma di sūtra o aforismi. In seguito sono stati scritti commenti su questi aforismi, e questi commenti sono seguiti da glosse, esposizioni e sunti esplicativi, nei quali le dottrine originali subiscono modificazioni, correzioni e ampliamenti.

I sei darśana concordano su certi punti fondamentali: accettano l’intuizione, l’inferenza e il Veda, ma la ragione viene subordinata all’intuizione perché la vita nella sua totalità non può essere compresa dalla ragione logica. L’autocoscienza non è la categoria ultima dell’universo; vi è qualcosa a cui vengono dati nomi differenti: Intuizione, Rivelazione,Coscienza universale, Visione divina. Tutti i darśana criticano lo scetticismo dei Buddisti costruendo un principio oggettivo di realtà e verità in opposizione ad un flusso delle cose eterno ed instabile. Accettano il punto di vista del grande processo dell’universo: cicli di creazione, conservazione e dissoluzione si alternano. Lo scopo a cui tendono tutti i darśana è la liberazione: ossia il recupero da parte dell’anima della sua naturale integrità dalla quale l’errore l’aveva allontanata; inoltre tutti hanno come ideale la completa stabilità mentale, la libertà dalle incertezze e dai contrasti, dalle pene e sofferenze della vita. Il concetto della jivanmukti, o liberazione in vita, è ammesso da molte scuole. I darśana credono nella preesistenza dell’anima e nella rinascita. Hanno come ideale la trascendenza del livello puramente etico e riconoscono l’amore altruista, l’azione disinteressata e la purificazione della mente come cosa indispensabile per il perfezionamento etico.