Lo yoga della Bhagavad Gita di Sri Aurobindo

"Ma, anche se uccide questi uomini, colui che è libero dal senso dell'io che agisce e la cui ragione non è offuscata, non uccide e non rimane sottoposto alle conseguenze del suo atto". BG cap.XVIII sutra 17.

Generalmente supponiamo che l'autore dei nostri atti sia l'ego personale e superficiale; ma è l'idea falsa di una comprensione che non ha raggiunto la conoscenza. L'ego è l'autore apparente, ma l'ego e la volontà sono creazioni e strumenti della Natura, con cui l'ignorante modo d'intendere identifica a torto il nostro vero sè. Ego e volontà non sono d'altra parte i soli a determinare l'azione umana; ancora meno la dirigono e ne causano le conseguenze.

"Ti dirò adesso, o Guerriero dal braccio possente, quali sono - secondo il Sankhya, che [mediante la conoscenza] mette fine all'azione - i cinque fattori che intervengono nel compimento di ogni azione. Essi sono: la sede [dell'azione], l'agente, i diversi strumenti, le diverse forme dello sforzo e, al quinto posto, il destino.
Tutte le azioni, giuste o ingiuste, che l'uomo intraprende col corpo, la parola o il pensiero, procedono da queste cinque cause. In tal modo, l'uomo dall'intelligenza rozza e dallo spirito perverso, che si considera come l'unico autore [dei suoi atti], non scorge la verità." BG cap. XVIII sutra 13-16.

Quando ci liberiamo dall'ego, il nostro vero Sè, impersonale e universale, passa in primo piano e, nella visione che ha della sua unità con lo Spirito universale, vede che la Natura universale è l'autore dell'azione, e nella divina Volontà nascosta vede il Maestro della Natura universale. Finchè non abbiamo questa conoscenza siamo legati al carattere dell'ego; pensiamo che l'ego con la sua volontà sia l'autore dell'azione, che siamo noi gli autori del bene e del male e noi a raccogliere le soddisfazioni della nostra natura tamasica, rajasica e sattvica. Ma non appena incominciamo a vivere secondo questa più grande conoscenza, il carattere e le conseguenze dell'azione si rivelano senza importanza per la libertà dello spirito. Esteriormente l'opera può essere un'azione terribile, come la grande battaglia e il massacro di Kurukshetra; ma anche se l'uomo liberato prende parte alla lotta, anche se uccide "tutti questi uomini", non uccide nessuno e non è legato dal suo agire, perchè l'opera è quella del Maestro dei mondi, ed è Lui, con tutta la sua poderosa Volontà, che ha ucciso questi eserciti. Il lavoro di distruzione era necessario affinchè l'umanità potesse muoversi più speditamente verso una nuova creazione e un nuovo fine, per poterla sbarazzare del suo passato, karma, d'iniquità e farla avanzare verso il regno del dharma.

L'uomo liberato compie l'opera che gli è stata assegnata quale strumento vivente dello Spirito universale, uno in lui. Sapendo che tutto ciò deve avvenire, andando oltre le apparenze esteriori, non agisce per sè stesso, ma per il Divino e per l'uomo, per l'ordine umano e l'ordine cosmico; infatti non è lui che agisce, ma è consapevole della presenza e del potere della Forza divina nei suoi atti e risultati. Egli sa che la Shakti suprema, sola autrice, adempie in lui - nel suo corpo mentale, vitale e fisico- l'azione assegnata da un Destino che in verità non è il Destino, dispensatore meccanico, ma la saggia Volontà che tutto vede, all'opera dietro il karma umano.

Questa "azione terribile" intorno alla quale gira tutto l'insegnamento della Gita, è l'esempio estremo di un'azione in apparenza funesta, ma che dietro a queste apparenze nasconde tuttavia un gran bene. L'uomo chiamato ad adempiere questa funzione deve compierla impersonalmente per mantenere la coesione del mondo, senza scopo o desiderio personale, ma perchè è la missione assegnatagli.

 

(liberamente tratto da "Lo yoga della Bhagavad Gita" di Sri Aurobindo ed. Mediterranee)

 

Bodhidharma

La vera via è sublime. Non può essere espressa a parole. A che cosa servono le scritture? Chi vede la propria natura trova la Via, anche se non è in grado di leggere una parola.

Lao Tze

Il più antico e forse il più grande pensatore saggio cinese è senz'altro Lao-Tze.

Intorno alla sua figura aleggia un'atmosfra di leggenda e di mistero e nulla di preciso si sa sulla sua vita. La tradizione fa risalire la data della sua nascita al 604 a.C, ma gli studiosi ritengono che sia vissuto tra il 570 e il 490 a.C.

Si sa che rivestì diverse cariche pubbliche e fu anche bibliotecario e archivista di corte. Si narra che compì molti viaggi, l'ultimo dei quali lo vide partire su un bue nero verso l'Occidente per non fare mai più ritorno in Cina.

Visse nella più segreta solitudine e la sua notorietà è legata al celebre Tao-têh-King, libro canonico della norma, del cammino e della virtù. Da questo libro è derivato il termine Taoismo, termine con il quale viene designata la corrente di pensiero cinese che si occupa della natura dell'Universo e delle relazioni dell'uomo con Esso.

Per Lao-Tze tutta la realtà è il Tao, cioè una indivisibile unità e ogni parte del tutto è tanto importante quanto lo è contemporaneamente ogni qualsiasi altra cosa. Nel Tao un uomo non ha né maggiore importanza, né maggiore valore di un moscerino.

Il Tao può essere conosciuto solo con l'intuizione e si rivela a colui che è capace di essere completamente inattivo e indifferente (s'intende senza alcuna attività mentale o materiale). Una delle strade per conoscere e comprendere il Tao è senz'altro la meditazione: si è allo stesso tempo inattivi e indifferenti, ricettivi e uniti con la Mente Universale Divina che ci rende consapevoli del momento presente e ci fa intuire la Verità (il Tao).

Il pensiero, la mente, opera attraverso astrazioni, finzioni, e scinde ciò che è unico e unito, falsando la realtà stessa. Quindi l'attività intelletuale dovrebbe essere evitata e sostituita da una conoscenza più profonda, cioè nell'identificare noi stessi nel Tao (la Verità è dentro di noi).

Il Tao è il bene e il male, la bellezza e la bruttezza, la sapienza e l'ignoranza allo stesso tempo e l'una esiste solo in funzione dell'altra: vi è il male per conoscere il bene e vi è l'iniquità per sperimentare la giustizia…

Il Tao è Dio, Dio è il tutto (bene e male, principio maschile e femminile, luce ed ombra…) e l'uomo è Dio.

Plotino

Plotino, uno dei più importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo, nacque in Egitto intorno al 205 dc e morì a Roma nel 270 dc. Fece i suoi studi ad Alessandria, uno dei più importanti centri culturali di quel tempo, in cui si incontrano il platonismo, l'ebraismo, il cristianesimo, lo gnosticismo, l'ermetismo, ma anche le idee del lontano Oriente. In effetti nel pensiero di Plotino ritroviamo diversi elementi della sapienza orientale. L' intenzione di Plotino era di superare la dualità Dio-Materia, che era invece presente in Platone e Aristotele.

Per Plotino il Dio supremo, l'Uno-Bene, è assolutamente trascendente e ineffabile. Esso non può contenere alcuna divisione, molteplicità o distinzione; è al di sopra persino di qualsiasi categoria di essere. L'Uno «non può essere alcuna realtà esistente» ed è «prima di tutto ciò che esiste», non gli si possono attribuire pensieri perché il pensiero implica distinzione tra pensatore e oggetto pensato. Allo stesso modo, non gli si può attribuire una volontà cosciente, né attività alcuna. La mente umana non può dire cosa esso sia, ma al massimo dire cosa non è. A rigore non si potrebbe neanche definire Bene: « L'Uno non può essere una di quelle cose alle quali è anteriore: perciò non potrai chiamarlo Intelligenza. E nemmeno lo chiamerai Bene, se Bene voglia significare una tra le cose. Ma se Bene indica Colui che è prima di tutte le cose, lo si chiami pure così. »

Per Plotino il molteplice, il finito è un allontanamento via via maggiore dal Bene indeterminato o Assoluto unitario. E come si origina la molteplicità cosmica?

Dall'Uno procede l'Intelletto (Nous o Spirito: seconda ipostasi). L'emanazione avviene per una sorta di auto-contemplazione dell'Uno: nel contemplarsi, l'Uno si sdoppia in soggetto contemplante e oggetto contemplato. Questa autocontemplazione non appartiene propriamente all'Uno, perché in Lui non c'è dualismo alcuno. L'autocontemplazione è soltanto la conseguenza del traboccare dell'Uno, che ne rimane al di sopra. L’Intelletto è l'estasi dell'Uno: il suo pensiero che pensa se stesso e le Idee.

 

Pitagora e la scuola pitagorica

Pitagora (VI sec. a.C.) fu il primo uomo a usare il termine “filosofia”(= amore per la conoscenza), intendendola come un'aspirazione verso la verità o meglio la tendenza profonda di ogni essere verso la contemplazione. Tale contemplazione, intesa come scoperta e assimilazione al divino, è l'ideale della vita e della vita filosofica in particolare. La filosofia perciò deve coincidere con una scelta esistenziale, con la ricerca della verità e dell'illuminazione e non può ridursi a semplice attività intellettuale.

Pitagora, nato nell'isola di Samo, ha partecipato ai “misteri” eleusini, dionisiaci e orfici, ha compiuto viaggi in Persia, Babilonia ed Egitto. Infine approdò in Italia, insediandosi a Crotone dove fondò una scuola che ebbe grande influenza sulla spiritualità occidentale.

La scuola pitagorica comportava un'iniziazione e un'intensa vita comunitaria. Ad essa potevano accedere anche le donne, sempre che ne avessero l'attitudine. Ricollegandosi alle concezioni orfiche e orientali, Pitagora riteneva che l'uomo avesse un'anima immortale, oscurata però dalle passioni, dagli impulsi irrazionali e dai falsi valori. Per sfuggire al ciclo delle rinascite era necessario dedicarsi ad una vita integralmente contemplativa. Quindi Pitagora alla via dionisiaca dello sfrenamento dei sensi contrapponeva la via apollinea delle virtù, della conoscenza e della meditazione.

Nella sua scuola vi era distinzione tra iniziati veri e propri e semplici aspiranti. I primi avevano già superato delle prove e vivevano in comunità dividendo con gli altri i loro beni; i secondi stazionavano in attesa di essere accolti o respinti.

L'educazione impartita nella scuola pitagorica era fisica, intellettuale, religiosa e mistica. Quindi si passava dagli esercizi ginnici (che ricordano lo hatha yoga indiano) allo studio della matematica, astronomia, medicina, musica e le opere di Omero e di Esiodo, cercando di non trascurare nessun aspetto dell'attività umana, anche per questo ci si occupava di problemi politici. Infatti alcuni pitagorici furono ottimi governanti delle città italiane.

Gli studi comunque avevano lo scopo di contribuire alla purificazione (kátharsis) dell'anima, poiché la conoscenza era considerata un importante mezzo di elevazione spirituale.